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Come funziona la dieta intermittente?

Quando si parla di dieta del digiuno intermittente, non si sta parlando di “dieta” nel senso stretto della parola bensì di un “regime alimentare”.

Infatti, questo protocollo alimentare prevede di seguire un intervallo di tempo in cui si mangia alternandolo con un altro di digiuno. Questo approccio può variare per quanto concerne la durata delle due fasi e negli anni sono state avanzate molte proposte.

Il digiuno intermittente prevede l’alternanza di fasi di digiuno (o sottoalimentazione) lunghe dalle 16 alle 36 ore a fasi di alimentazione e può comprendere qualsiasi scelta di cibo (paleo, mediterraneo, vegan, vegetariano, zona e chi più ne ha più ne metta).

Quindi niente di particolare e sconvolgente, si aggiunge semplicemente qualche ora al digiuno notturno.

Il digiuno intermittente non ha durata precisa, puoi sfruttarlo come metodica sul lungo periodo ma anche solo per qualche volta a settimana. È chiaro che per digiuno non bisogna intendere giorni o settimane senza mangiare o con poche calorie, entreresti in uno stato di malnutrizione e non fisiologico: per digiuno si parla di periodo in termine di ore senza mangiare, come illustrato precedentemente.

Per chi è abituato a fare 5 o 6 pasti al giorno è difficile passare direttamente a tante ore senza mangiare: è necessario del tempo in cui, gradualmente, ti abitui a mangiare meno volte al giorno, ad esempio iniziando ad eliminare i pasti di metà mattina o pomeriggio.

Una volta raggiunto questo obbiettivo, puoi approcciare con più facilità al digiuno intermittente, in cui il numero di pasti è indifferente: l’importante è che venga mantenuto l’apporto calorico prestabilito e la finestra di alimentazione/digiuno.

Il digiuno imposta un nuovo assetto metabolico e ormonale e, quando ben calibrato, è vantaggioso: aumentano i livelli di GH, il dispendio energetico, la lipolisi e si riesce a mantenere un buon controllo della fame.

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Cos’è la sindrome burnout

La sindrome di burnout è grave forma clinica, derivante da una tensione negativa ed eccessiva nel luogo di lavoro.

Burnout, termine inglese che può essere tradotto con gravemente esaurito: In generale con burnout si intende una condizione di esaurimento emotivo derivante dallo stress dovuto alle condizioni di lavoro e a fattori della sfera personale e ambientale  ed è tipico di tutte le professioni ad elevato investimento relazionale.

La sindrome di burnout è quindi una risposta estrema ad un ambiente lavorativo emotivamente troppo carico, che può indurre nel soggetto una difficoltà di lavorare in termini di qualità della prestazione o addirittura di continuità dell’attività lavorativa stessa.

ll burnout può essere inteso, quindi,  come una progressiva perdita di energia  sul lavoroin seguito ad una prolungata e logorante esposizione  a situazioni particolarmente stressanti, le quali conducono a una destrutturazione della possibilità dell’individuo di trovare soluzioni comportamentali utili al mantenimento della sua integrità professionale, con conseguente perdita della serenità emotiva e delle annesse capacità adattive.

Fra le principali componenti del burnout si riscontrano, dunque, oltre all’esaurimento emotivo, anche forme di distacco emotivo e mentale dall’organizzazione, percepita come la fonte del proprio malessere, l’inefficacia professionale, ovvero un senso di inadeguatezza al ruolo e di impossibilità di fornire le prestazioni richieste, dinamiche che conducono la persona a sentirsi professionalmente incompetente.

È molto importante, dunque, riconoscere i sintomi preliminari del burnout al fine di prevenire il suo insorgere.

In particolare immaginando un continuum psicologico dove ad un estremità si situa il burnout, è possibile individuare all’altra estremità il job engagement , ovvero la propensione dell’individuo a lavorare con grande investimento energetico, ad essere emozionalmente coinvolto nel lavoro ed a percepirsi come efficace. Così come la sindrome del burnout può manifestarsi con diverse gradazione, anche le conseguenze di questo fenomeno variano da forme meno gravi (brevi periodi di assenteismo o lievi sintomi somatici) a forme più gravi (sintomatologia somatica grave, insoddisfazione lavorativa fino ad arrivare al turnover, ovvero abbandono volontario del posto di lavoro o richiesta di trasferimento.

Quel che potrà risultare  realmente efficace, sarà dunque un costante monitoraggio del fenomeno nonché della presenza o meno di relazioni serene e positive sul posto di lavoro.

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